j, thanks for the nice picture

(Nella foto un elettore ha detto sì, in turco “evet”, al partito del premier Erdogan. Sullo sfondo il ritratto di Atatürk. La Turchia dell’islam politico e quella del laicismo di Kemal Atatürk nello spazio di un frame)

passo il pomeriggio fuori Ankara. vado a osservare nei seggi elettorali in una città piccola e polverosa a una cinquantina di chilometri dalla capitale. scelta su una minuscola cartina, la cittadina in questione si chiama Kazan.
subito penso: adesso vedo la Turchia vera.

ai seggi elettorali, nelle scuole elementari di Kazan, ci guardano con una certa curiosità: io, un collega americano e la nostra interprete, una ragazza di Istanbul di origini curde.
ovunque entriamo Atatürk ci scruta con i suoi occhi azzurri: dalle pareti delle aule, dai corridoi dipinti a colori pastello, dagli androni pieni di elettori che aspettano il loro turno, chiacchierano, cercano di capire dove devono votare. e fumano. e ci guardano.

passiamo un’ora nel tardo pomeriggio a osservare il conteggio delle schede in un seggio dove il presidente posa fiero e sorridente per le nostre foto, mentre le operazioni di scrutinio proseguono monotone e regolari nel caldo secco che c’è dentro e fuori.
nel cortile della scuola sventola una bandiera con la mezza luna che dispettosa si ritira quando j cerca di fotografarla per poi subito dispiegarsi intera e rossa al flebile vento appena lui si volta divertito e arreso. io, seduta in un piccolo banco, seguo distratta il corteggiamento fotografico alla bandiera timida e cerco di ricordare come ero alle elementari, negli stessi banchi piccoli, con lo stesso immutabile senso di noia nelle ore vuote e immobili. intanto un rappresentante del partito di Erdogan cerca di convincere la nostra inteprete a votare per loro. e un po’ ci prova, mi sembra, ma lei lo guarda con il trucco nero che cola ed è distante anni luce.

a operazioni finite salutiamo e torniamo in ufficio. la macchina che ci riporta ad Ankara corre veloce in mezzo alla “vera” Turchia. l’autista e l’inteprete sono silenziosi. la luce è quella obliqua e gialla della giornata che se ne va. si appoggia sulla polvere, su un nuovo governo da formare, su un’altra elezione che è finita, su un risultato annunciato.
penso che mi piace viaggiare a quest’ora, penso che tra poco tornerò a casa.
non immagino che passerò la serata in ufficio a bere birra calda e sgasata.